Perfect days

Perfect days

È uno spaccato della vita quotidiana di uno spazzino giapponese. Descritto così, questo film potrebbe essere considerato come il più noioso documentario mai concepito da mente umana. E invece, la mente umana dietro la cinepresa è quella di un autore; uno dei pochi cineasti rimasti nel nostro tempo: il tedesco Wim Wenders.

Quello che risulta non è pertanto un piatto e insignificante documentario sulla pulizia dei cessi, né tantomeno sui bassifondi di Tokio.

Lo spettatore è proiettato nella vita di un anonimo addetto di mezza età della The Tokio Toilet, alle prese con le minute e rituali azioni quotidiane della sua vita: siamo con lui nel suo appartamentino di due locali in un sobborgo della capitale giapponese, dove si sveglia all’alba; siamo con lui all’interno dei servizi igienici pubblici che ha il compito di pulire ogni giorno.

Egli svolge il suo umile mestiere con incredibile zelo, solerzia e accuratezza; mettendoci più cura e sollecitudine di quanto farebbe un dentista alle prese con la pulizia dei denti. Quando non è alle prese con i suoi doveri professionali, l’anonimo “omino”, invisibile e ignorato da tutti come il rumore di fondo di un centro commerciale o lo sfondo di una scenografia, fa un’azione molto strana e bizzarra anche per una persona comune di una qualsiasi metropoli del nostro tempo, per non parlare di uno spazzino: guarda il cielo. E sorride.

Alzare gli occhi al cielo è la prima azione che compie – dopo essersi accuratamente rasato, lavato i denti e aver annaffiato le pianticine – quando si affaccia dall’uscio di casa ai primi bagliori del giorno. Poi osserva il sole sorgere lungo la tangenziale, ascoltando in audiocassetta The house of the rising sun degli Animals. Nelle pause dal lavoro, osserva la luce del sole che filtra tra i rami degli alberi in un parco, o le ombre proiettate sulle superfici metalliche dei moderni bagni pubblici nipponici; si inchina passando davanti alla porta scintoista; estirpa con cura un germoglio, che trapianterà in uno dei suoi vasi d’appartamento; scatta foto, per cercare di cogliere il gioco delle ombre e delle luci, e altre azioni stravaganti o apparentemente insignificanti.

Potrebbe sembrare quasi, a tratti – nella solitaria ritualità da scapolo cittadino delle sue giornate – una sorta di mister Bean nipponico, ancorché meno infantile ed egoista; o ancora un poetico e ingenuo Marcovaldo del Sol Levante, ma meno imbranato e più contemplativo.
Se la solitudine lo accomuna al primo – una solitudine, tuttavia, non compensata con una regressione infantilista e solipsista, sfociante nel comico – , un certo sguardo di fanciullo e di innocenza sulle cose lo accomuna al secondo – sguardo, tuttavia, che si intuisce essere tanto profondo, saggio e consapevole, quanto sereno e amorevole.

Queste ultime qualità sono forse quelle che rivelano appieno il protagonista, all’apparenza così comune e dimesso, ma allo stesso tempo così enigmatico e importante – di un’importanza tutta interiore e quasi spirituale, inversamente proporzionale all’appariscenza e alla considerazione sociale.
Hirayama, nell’incredibile quanto incomprensibile zelo che impiega nel suo ingrato lavoro, esprime una dignità che gli viene riconosciuta in chi sperimenta il suo altruismo e la sua generosità, a partire dal giovane collega, da cui viene chiamato – molto a proposito – “mentore”; una dignità tuttavia più tranquilla che stoica: non vi è spirito di sacrificio, dura ineluttabilità o rassegnata, passiva accettazione, né espiazione (non veniamo a sapere di passati traumatici, di colpe o torti). Egli svolge il lavoro che gli è affidato al suo meglio, senza che lo spettatore riesca a comprendere il perché di una dedizione così umiliante e malriposta, almeno per un uomo che legge Faulkner e ascolta audiocassette di Patti Smith e Velvet Underground, e ha uno sguardo di bontà ed empatia verso il creato e gli esseri che lo popolano, a partire da quelli a lui più prossimi.

Già, perché? Cosa giustifica una tale esistenza consumata a lucidare sanitari dove gente di passaggio scarica deiezioni – gente quasi sempre più altolocata, benestante e socialmente importante di lui, ma quasi sempre meno spiritualmente nobile? Cosa c’è di più degradante per un uomo che si intuisce di animo elevato? A cosa è dovuta tanta incomprensibile gratuità? Forse che il tradizionale senso del dovere nipponico riscatti, agli occhi di un occidentale (per non parlare di un americano) una tale esistenza, considerata, pei nostri canoni, apice del fallimento? Che risieda tutto in una sorta di dovere per il dovere, o di spirito orientale di accettazione e laboriosità?

In mancanza, come detto, di passati da riscattare o da dimenticare – ecco l’apparente assoluta gratuità – , si potrebbe spiegare la scrupolosa dedizione dello spazzino con la dedizione per la cura delle cose: egli si prende cura delle cose (come della propria e, indirettamente o direttamente, delle altre persone), avendo a cuore i luoghi in cui condivide la propria vita con gli altri, e quindi, indirettamente, gli altri. Ma questo, a mio modo di vedere, sarebbe ancora riduttivo: più ancora che la virtù femminile e materna della cura, in Hirayama si può ravvisare colui che, virilmente ma umilmente – non è un guerriero, un cavaliere o un samurai – si dedica anima e corpo al più invisibile e indispensabile dei doveri: la manutenzione delle cose. Alla manutenzione, per quel che è in suo potere e nel suo orizzonte urbano e umano, nientemeno che della civiltà e dell’umanità che la abita. E quindi al decoro delle cose e delle persone; alla loro dignità. Senza nulla in cambio, nell’anonimato e nell’oscurità.

Le poche persone che incontra e con cui ha a che fare – e che lo cercano e, conoscendolo, lo apprezzano – ricevono tutte, da lui, qualcosa. E sempre gratuitamente. Un sorriso, un cenno di saluto, un’indicazione. O soccorso, assistenza. Un’audiocassetta; un passaggio in macchina; soldi. Comprensione. Condivisione della musica e del silenzio. Un materasso nella propria abitazione. Una massima di vita – un’altra volta lo faremo. Quando? Un’altra volta! Un’altra volta è un’altra volta. Adesso è adesso! – dice alla nipote che, scappata di casa, viene a trovarlo.

Ma sì, ecco. Forse questo umile, dignitoso spazzino è in fondo un eroe. Forse l’unico eroe che il nostro tempo permetta. Un samurai della nostra epoca, o meglio un ronin: un samurai senza padrone che combatte da solo. Ma, come detto, la sua solitudine non è fuga sdegnata dal mondo e dalla società, tutt’altro: è la cavalleria di chi, in un tempo di abbandono, egoismo e solitudine, tiene la posizione che gli è stata assegnata, senza cedere a se stesso o agli abbagli del mondo, per mantenere – manutenzionare – il pezzetto di realtà e di civiltà che lo circonda e che è affidato al suo sguardo di vigile contemplazione.

Nel dormiveglia, prima di abbandonarsi al toboga del sonno, Hirayama vede un’ideogramma: 日陰ombra“. Ombre fuggenti di foglie, volti, nuvole, superfici si sovrappongono, e oscillano, come al vento. In un chiaroscuro, bianco e nero o grigio, come quello delle foto che scatta alla luce che filtra tra i rami del parco. Cosa si cela al di là di quelle ombre, che quasi ossessivamente egli cerca e studia? Forse la proiezione sulla terra della luce invisibile e scura, dal cielo e da un’altra realtà, che non possiamo guardare direttamente; o forse soltanto lo scorrere misterioso delle cose, sempre diverso e sempre uguale a se stesso: un gioco di inseguimento dell’ineffabile, come il gioco “prendi l’ombra” che Hirayama fa con il vecchio marito di una locandiera. Questi, malato terminale, morirà senza aver nulla scoperto della vita, perché non sa “se due ombre, sovrapposte, sono più scure”. “Certo”, lo rassicura Hirayama, “sono senz’altro diverse, due ombre sovrapposte. Se tutto fosse sempre uguale, che senso avrebbe tutto”?