Perché studiare. Utile e dilettevole, libertà e schiavitù.

Perché studiare. Utile e dilettevole, libertà e schiavitù.

Leggendo un paio di manuali universitari di didattica della storia, mi imbatto in un profluvio di teorie e metodologie improntate su una concezione costruttivista e pedagogista attiva (o attivista).

Centinaia di pagine, circonlocuzioni, slogan, refrain, circolarità di parole d’ordine e raccomandazioni UE, competenze e altre amenità per trovarsi di fronte, muti e contraddittori, a un’evidenza solare, che chiunque conosca minimamente la scuola di oggi sa: l’indirizzo delle direttive e degli orientamenti didattici attuali va verso una concezione del sapere non più come trasmissione intergenerazionale di conoscenza, idee, concetti e (le tanto vituperate) nozioni – ciò che, per millenni, ha consentito di tramandare le acquisizioni della civiltà e i valori fondanti una società e un’identità collettiva – , bensì come acquisizione di comportamenti e “competenze” – saper fare – strumentali e utili, spendibili nel “mercato del lavoro”, performanti e produttivi, e infine funzionali all’adattabilità incondizionata alla catena di montaggio dell’Opinione comune e della società-alveare mondialista, in cui i futuri cittadini dovranno essere intruppati, secondo il volere e gli scopi dei centri anonimi di potere transnazionale, come “risorse umane” al servizio del Capitale.

Questo lo scoraggiante stato dell’arte, si fa per dire, dell’istruzione e della cultura.

Ma perché, veramente, si studia? Perché i giovani di genio e intelletto (e volontà), da sempre, hanno profuso sforzi, tempo e sacrificio per sapere?

Credo, anzitutto, per due ragioni: una strumentale e una che potremmo definire esistenziale o sostanziale.
In quanto alla prima ragione, quella strumentale, che oggi si vuole affermare in via esclusiva, possiamo a sua volta concepirla in base a differenti scopi e profondità.

I più studiano per ragioni funzionali o tecniche: lo scopo è conoscere e apprendere determinate azioni o informazioni utili a espletare una pratica, svolgere una mansione, abilitarsi a una professione, acquisire abilità. Questo livello è meramente utilitaristico: acquisisco delle conoscenze esclusivamente “spendibili” e utili, col solo scopo di poter trovare un lavoro, un ufficio, un posto, uno status sociale, un riconoscimento di prestigio personale, economico o di classe.

Da un punto di vista più profondo e alto, invece, si desidera conoscere la realtà perché, questa, non mi soddisfa così com’è. Lo scopo dell’acquisizione della cultura, della conoscenza e del sapere è di cambiare il mondo, di rettificarlo e renderlo più conforme a quello che si considera – in base proprio alla conoscenza che ci si è fatta studiandolo – essere (più) giusto. Il sapere è ancora strumentale, ma per un'”utilità” più alta: vi è una sete di conoscenza, un anelito e un afflato verso la realtà, che rendono l’uomo pienamente tale, lo innalzano e, in qualche misura, lo nobilitano. La motivazione è già una sete di conoscenza, che è più che mera curiosità d’inventario o di erudizione.
Perché ciò avvenga, tale sete di sapere deve essere rivolta, positivamente, alla realtà in quanto tale – ancorché, in maniera privilegiata, ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri, per un fine determinato e immanente alla realtà stessa.
Il rivoluzionario e l’idealista sono i tipi umani specifici di tale desiderio di studio: essi vogliono conoscere la realtà per cambiarla e trasformarla, poiché avvertono una discrepanza tra essa e l’ideale che se ne sono fatti nella loro mente (ideale che, come detto, non può che nascere e costituirsi a partire dalla realtà percepita e studiata, a meno che esso non nasca, come idea ricevuta, soltanto da un indottrinamento esterno a cui ci si conforma).

Infine, vi è la pura e disinteressata sete di conoscenza: l’afflato alla conoscenza per la conoscenza, che, per i greci, era ciò che contraddistingueva il vir e il civis, cioè l’uomo libero, dallo schiavo e da colui che, per sopravvivere, è costretto a impiegare la forza delle proprie braccia, a vendere e spendere il proprio tempo al negotium. L’uomo libero, tramite lo studium – che significa diligenzaapplicazionecurapassioneimpegnoamoreardoredesiderio, inclinazione – coltiva e sviluppa se stesso, la propria umanità e diventa pienamente uomo: egli può così dedicarsi all’otium delle lettere e della speculazione, all’arte e alla contemplazione della bellezza. Il suo tempo è libero, perché egli è veramente e pienamente libero. Colui che desidera, che ama tale tipo di studio, è il vero sapiente o vero studioso: egli non studia la realtà per fare la rivoluzione, per cambiare la realtà, ma anzitutto per cambiare se stesso, per innalzare la propria anima e ampliare il proprio orizzonte.
Per tutto il medioevo e fino al principio dell’età moderna, le discipline inutili erano designate col nome di “arti liberali” (dialettica, grammatica, retorica, aritmetica, astronomia, geometria, musica; contrapposte alle arti meccaniche, meno nobili e utili) appunto perché libere, e come tali inutili per definizione: infatti esse, a differenza delle arti meccaniche, non servono niente e nessuno, né a fare niente, se non a pensare, a espandere e nobilitare il proprio essere e a godere di tutto quanto è buono, bello e nobile nella realtà. Esse sono perciò degne di un uomo libero. Le discipline di studio non rientrano nell’ordine dell’uti (usare, consumare), ma del fruor (godere, fruire, trarre diletto); servono disinteressatamente soltanto la verità.

Secondo quest’ultima concezione, si studia per conoscere e contemplare la realtà in se stessa e nelle sue forme più alte e nobili, e non, primariamente, per un utile o uno scopo particolare e spendibile. In questo senso il sapere è gratuito e inutile: il sapiente, conoscendo e studiando la realtà (non un’idea ricavata da un aspetto di essa, né in vista della realizzazione dell’idea) ama e contempla la realtà, prende parte con l’intelletto e lo spirito a una dimensione che lo trascende e lo libera dalla contingenza e dalle catene del tempo e del servizio, dell’utile.

Se dunque il sapere inutile è degno del civis e dell’uomo libero, consapevole di sé, del mondo e padrone (nella misura del possibile) del proprio tempo, e se, al contrario, oggi si impone un sapere esclusivamente “utile”, finalizzato, spendibile e servibile, che tipo di uomo si vuole così formare? Un uomo pienamente tale o un suddito, un servo disponibile al potere e spendibile al mercato? C’è da stupirsi se il sapere umanistico, inutile e contemplativo è sempre più screditato e demolito dalla cancellazione e dall’appiattimento della cultura (cancel culture, woke, multiculturalismo) come dal politicamente corretto, mentre il sapere cosiddetto “utile” è imposto come esclusivo sapere? E non è un paradosso (uno dei tanti), che, tanto più si constata la provvisorietà, l’aggiornamento e la continua trasformazione ed “evoluzione” del mercato, delle conoscenze e dei saperi, tanto più si impongono conoscenze e saperi consapevolmente transitori e provvisori, e si elidono proprio gli studi più saldi, stabili, generali e di più ampio respiro e orizzonte, che hanno dimostrato, per secoli, di resistere alla prova del tempo, al vaglio delle critiche e dell’intelligenza, precisamente in quanto fondatori dell’intelligenza?