Generazioni

Generazioni

Si era verificato uno scarto drammatico tra noi e la generazione precedente, che ha dovuto sopravvivere sotto il fascismo, perdere gli anni più belli nella Resistenza, o nelle squadre di Salò. Noi, quelli nati intorno agli anni trenta, siamo stati una generazione fortunata. I nostri fratelli maggiori sono stati distrutti dalle guerre, se non sono morti si sono laureati con dieci anni di ritardo, alcuni di essi non sono riusciti a capire che cosa fosse il fascismo, altri lo hanno imparato a proprie spese faticosamente nei GUF. Noi siamo arrivati alla liberazione e alla rinascita del paese che avevamo chi dieci, chi quattordici, chi quindici anni. Vergini. Consapevoli abbastanza per aver capito quello che era accaduto prima, innocenti abbastanza perché non avevamo avuto il tempo di comprometterci. Noi siamo stati una generazione che ha iniziato a entrare nell’età adulta quando tutte le opportunità erano aperte, ed eravamo pronti a ogni rischio, mentre i nostri maggiori erano ancora abituati a proteggersi l’uno con l’altro. Agli inizi qualcuno aveva parlato del Gruppo 63 come di un movimento di giovani turchi che cercavano con azioni provocatorie di dare la scalata alle roccaforti del potere culturale. Ma se c’era qualcosa che distingueva la neoavanguardia da quella di inizio secolo, era che noi non eravamo dei bohémien che vivevano in soffitta e cercavano disperatamente di pubblicare le loro poesie nel giornaletto locale. Ciascuno di noi, a trent’anni, aveva già pubblicato uno o due libri, era ormai inserito in quella che si chiamava allora l’industria culturale, e con mansioni direttive – chi nelle case editrici, chi nei giornali, chi nella RAI. In questo senso il Gruppo 63 è stato l’espressione di una generazione che non si ribellava dal di fuori bensì dal di dentro. Non è stata una polemica contro l’establishment, è stata una rivolta dall’interno dell’establishment, un fenomeno certamente nuovo rispetto alle avanguardie storiche. Se è vero che gli avanguardisti storici erano incendiari che morivano da pompieri, il Gruppo 63 è stato un movimento nato nella caserma dei pompieri, dove poi alcuni sono finiti incendiari. Il gruppo esprimeva una forma di gaiezza, e ciò faceva soffrire lo scrittore che per definizione si voleva sofferente.

[Umberto Eco, Prolusione, in AA.VV., Il Gruppo 63 quarant’anni dopo, Bologna, 6-11 maggio 2003, da U. Eco, Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, Milano 2011].

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Leggendo pagine come questa, nel tempo che viviamo e nella realtà che ci circonda, è inevitabile fare parallelismi tra la mia generazione – quella convenzionalmente chiamata dei millennials, cioè dei nati negli anni ’80 e ’90 – e le generazioni che ci hanno preceduto; segnatamente, in questo caso, la generazione grossomodo dei nonni degli odierni millennials, o, meglio, dei fratelli minori dei nostri nonni – quelli nati negli anni ’30 – giacché, ad esempio, i miei nonni erano degli anni ’20 e, uno, la guerra l’ha pur fatta, da ventenne coscritto.

Dunque, due considerazioni sommarie.
I fratelli minori dei nostri nonni, se possono considerarsi una delle generazioni più fortunate, forse, dell’intera storia umana (o almeno della storia contemporanea), in confronto ad essi, la mia può, al contrario, considerarsi una delle più sfortunate degli ultimi ottant’anni.
Per dar ragione di ciò (un’evidenza, invero, per chiunque sia minimamente cosciente di esistere e abbia un minimo di coscienza e conoscenza storica), facciamo un breve, sintetico, raffronto.

Anzitutto, quella di Eco è stata “una generazione che ha iniziato a entrare nell’età adulta quando tutte le opportunità erano aperte“, ed era “pronta a ogni rischio“, cioè a dire pronta ad affrontare e fiduciosa nell’avvenire, ché, chi si assume (coscientemente) rischi, lo fa guardando al guadagno, alla realizzazione che si aspetta in futuro. Un futuro che non teme e che, anzi, vede come terra di promesse. Al contrario, la nostra è una generazione che non solo non è forse ancora entrata, veramente, nell’età adulta, ammesso che vi ci entrerà mai, almeno per i canoni tradizionali (appena la metà dei miei coetanei ultratrentenni ha figli, moglie e casa di proprietà, e anche questa metà, per lo più, ha una visione della vita da post-adolescente e progetti che non vanno oltre il breve-medio termine), ma che, soprattutto, entra nell’età “adulta” quando tutte le opportunità sembrano precluse, esaurite, lontane, irraggiungibili.

Come corollario a questo stato di cose, la mia generazione – e ancor di più, pare, quella successiva dei c.d. nativi digitali – non è per niente pronta al benché minimo rischio. Se si considera il rischio come investimento consapevole delle proprie potenzialità e del proprio coraggio in un’impresa significativa e senza alcuna garanzia di successo (e proprio perciò meritevole, virilmente, di intrapresa), da conquistarsi grazie al nostro valore, e non l’immatura incoscienza di stordirsi i sensi o di fare la bravata “trasgressiva” per vedere l’effetto che fa, spinti dalla noia e dal nonsenso, occorre dire che la mia generazione non ha alcuna intenzione di rischiare. Forse nemmeno nessun coraggio. Viziati sì, dai genitori boomers cresciuti nel benessere, ad vedere accolto e soddisfatto ogni capriccio, ma proprio per questo non disposti a rischiare nulla per ottenere qualcosa di veramente significativo, che investa e metta alla prova il nostro valore, la nostra tempra, il nostro carattere (che non abbiamo). Come hanno dimostrato irrefutabilmente gli ultimi tre anni, la mia generazione non è minimamente disposta a contestare, a dissentire, a pensare criticamente e alternativamente il presente – a rischiare nulla delle proprie nicchie di comfort acquisito e residuo – per sfidare la visione imposta dal potere, detenuto dalle generazioni degli ex-sessantottini e dei boomers, a cui essa si sottomette docilmente nella speranza di averne qualche briciola o concessione, e a cui non aspira realmente a divenirne parte, non credendo più nemmeno (forse giustamente) al fascino, agli onori e agli oneri di esso. Lasciati vivere a lascia vivere, sembra essere il motto in voga.

Se i contestatori di cinquant’anni fa urlavano “la fantasia al potere“, “abbasso la guerra“, “peace and love“, “rivoluzione!” e altre amenità, i miei coetanei di oggi e i loro fratelli minori non trovano altro da gridare che: “Bevo, bevo, bevo, bevo, bevo…mi ubriaco e son felice, anche se poi vomito“; oppure il benaugurante, elegante e romantico: “Dottore, dottore, dottore del buso del cul, vaffancul, vaffancul…“.

Non voglio tuttavia far carico alla mia generazione di essere l’artefice e la responsabile di tutti i mali che l’attanagliano: noi siamo stati cresciuti non per essere uomini (uomini virili, ma anche uomini e donne con ruoli stabili e naturali), quanto piuttosto eterni adolescenti desideranti e capricciosi; quando abbiamo scoperto che i desideri non possono sempre essere soddisfatti e che, soprattutto, essi sono sterili, futili e per lo più vacui e falsi, ci siamo rinchiusi nel solipsismo stordente e anestetizzante delle droghe digitali (videogiochi, smartphone, reti sociali) oltreché nelle canne, senza aspirare né combattere per nulla che non sia il nostro piccolo angolo di gioie egoiste ed edoniste con cui ci identifichiamo, essendo crollato ogni valore trascendente che vada oltre noi stessi, collettivo, stabile e di senso, sia esso politico, spirituale, ideologico, ecc.

Se siamo a questo punto, e se le generazioni ultime sembrano proseguire su questa strada di graduale annichilimento, degrado e desolazione, la responsabilità è anche (se non soprattutto) delle “rivoluzioni” che i vari Umberto Eco hanno fatto “da dentro” e ci hanno lasciato, e che i loro epigoni e successori del ’68 hanno portato al potere facendone sistema, facendo della contestazione al vecchio potere e del presunto anticonformismo al vecchio conformismo, il nuovo potere e il nuovo conformismo. Facendo tabula rasa di tutto quanto di buono era stato costruito e pensato, e sostituendolo con sciocchezze, trivialità, balbettii e nuove coercizioni.

Quelle generazioni privilegiate e fortunate ci hanno lasciato un mondo non solo più inquinato ambientalmente (questo è l’alibi per l’inazione, il vittimismo e il vandalismo nichilista di giovani falliti, e per l’irregimentazione emergenziale dei nuovi poteri totalitari), ma più intollerante e inumano – lo vediamo oggi con un’evidenza definitiva – dei vecchi autoritarismi