Nel tempo ma non del tempo – brevi considerazioni di capodanno

Nel tempo ma non del tempo – brevi considerazioni di capodanno

Recentemente ho letto il libricino di Adrien Candiard, un domenicano francese meno che quarantenne che vive al Cairo, intitolato “Veilleur, où en est la nuit” (letteralmente, “Sentinella. A che punto è la notte”), tradotto dalle Edizioni Missionarie Italiane “La speranza non è ottimismo”, ricalcando la tesi del saggio. Si tratta certamente di un testo importante per comprendere e meditare lo stato di tramonto – definitivo, per il monaco – della Cristianità.

Un altro anno è passato. Molti, ripercorrendo i dodici mesi appena trascorsi, non si capaciterebbero di come in fretta essi siano trascorsi. Così, siamo tentati di constatare che un altro anno è scorso senza che ce ne accorgessimo: forse viviamo esistenze anonime, più o meno vuote, banali, alienate, ripetitive e insignificanti – almeno per la maggior parte dell’umanità attuale e, a tratti, per quasi tutti? Ma per altri saranno trascorsi mesi e anni anche entusiasmanti, pieni, ricchi, vissuti. Come diceva Schopenhauer, la maggior parte del tempo la consumiamo oscillando tra uno stadio di noia, inerzia o tedio, e uno di dolore, tristezza, angoscia o disperazione. Rari e fuggevoli i momenti di serenità, gioia, allegria o felicità. Certo, come diceva Pascal, c’è poi sempre il caro vecchio divertissement: la distrazione, il divertimento o diversione; quello stato di euforia o eccitamento o entusiasmo per gratificazioni fisiche e psicologiche più o meno durature; o più spesso, di attività quotidiane, routinarie e meccaniche. Insomma, tutte le occupazioni che ci permettono di fare qualcosa e non pensare, di non soffermarci a guardare dentro di noi, attorno a noi; di non pensare al tempo che scorre, alla nostalgia del passato, alla fugacità inafferrabile del presente e all’incognita sommamente incerta del futuro. In una parola, di non pensare alla morte. Quindi, miseramente rari risultano, infine, i momenti di consapevolezza, di coscienza del proprio io, della propria condizione umana, personale, esistenziale.

Da una punto di vista “laico”, come impropriamente si dice oggi, ma più correttamente si direbbe mondano, tale coscienza profonda della vita sarebbe per lo più disperante. Non stupisce, quindi, se la maggior parte dei bipedi passa la quasi totalità dell’esistenza su questa Terra come animali bipedi, appunto, piuttosto che come persone, o come cristiani. Essi – noi tutti, in misura variabile – consumano il tempo che ci è dato vivere quaggiù cercando distrazioni alla morte, per non pensarvi (e, in generale, non pensare) ed evitare di porsi le domande decisive e quindi, soprattutto, per non dover azzardare delle risposte. Queste infatti, se assunte seriamente e consapevolmente, nelle loro implicazioni e conseguenze, ci costringerebbero a mettere in discussione ogni cosa, noi stessi, il senso e il destino della nostra vita.

Il passare del tempo è il primo indicatore che ci pone di fronte a quegli interrogativi cruciali, di cui ne va della vita e della morte, mondane ed eterne. Oggi non è più ieri, un anno è passato e di tutto quello che volevo, desideravo, progettavo, sognavo, non è rimasto che cenere e polvere. Un altro passo verso la fine; un pezzo in meno del grande futuro ricco di potenzialità e promesse; la strada radiosa verso una agognata realizzazione che si accorcia e restringe di un altro tratto. Come diceva Agostino, il passato non è più, il presente è un insieme di istanti inafferrabili e fuggevoli, il futuro non è ancora.

Quindi, dal punto di vista puramente mondano, la vita acquista un senso e uno scopo soltanto se uno scopo lo poniamo noi. Tale fine deve essere sufficientemente grande e proiettato nel futuro, da conferire senso a tutte le nostre azioni, al nostro tempo, e a giustificare – prima di tutto a noi stessi – la nostra stessa esitenza. Altrimenti, se tale grande scopo o impresa o idea manca, un giorno ci accorgeremo che il tempo delle promesse e del futuro è passato, che la candela è consumata, e la vita è trascorsa, disperdendosi come sabbia tra le mani.

Ma noi sappiamo, come ricorda l’Ecclesiaste, “Ciò che è stato è quel che sarà; ciò che si è fatto è quel che si farà; non c’è nulla di nuovo sotto il sole”.

Tuttavia, il pessimismo della ragione, alla luce delle vicende storiche, mondane e personali, sembra trionfare inevitabilmente. L’ottimismo, d’altro canto, appare tanto illusorio quanto irrazionale: credere che il nuovo anno sarà migliore è irragionevole e autoconsolatorio, non differendo in nulla dal pensiero magico (convincersi o ripetere che una cosa accadrà, la farà accadere veramente). L’ottimismo non è che l’altro lato del pessimismo nichilista: solo chi ripone tutte le speranze e le attese nel mondo può lasciarsene irretire e può, anzi forse deve, convincere se stesso a crederci, anche contro l’esperienza stessa e ogni ragionevole evidenza. “Speriamo” che l’anno nuovo sarà migliore del passato, ma perché mai dovrebbe?

Soltanto la speranza, al contrario, può permetterci di vivere e di tollerare lo scacco che ogni giorno, in un modo o nell’altro, ci si pone davanti come mortali e come estranei in un mondo, per molti versi, sempre più ostile e avviato a scenari distopici e apocalittici.

Ma, appunto, sperare significa adottare lo sguardo dell’eterno nel mondo e in ogni azione e scelta della nostra vita, non confidando assolutamente in traguardi, mete, scopi, salvezze soltanto mondani, destinati inevitabilmente alla sconfitta perché retti sull’illusione. Sperare significa sapere che, qualunque cosa accada, non è tutto qui, che nulla verrà perso delle nostre lacrime, del nostro dolore, delle nostre azioni. Sperare invano da ottimisti, invece, significa riporre tutte le speranze in un indefinito e roseo futuro finché, quando questo verrà, ci si scontrerà con lo scacco della realtà e della morte.

Che Dio ci doni la speranza, senza la quale né fede né carità sono possibili, e senza la quale non è possibile vivere, cioè dare senso al tempo e alla nostra esistenza di pellegrini nel mondo.